2024

9 marzo 2024 / CENNI CRITICI /
Valdi_Spagnulo_Tropici_della_scultura_2024

VALDI SPAGNULO -TROPICI DELLA SCULTURA

Studio 28nero -Firenze

Sguardo mobile e immagine lenta: periboli di un’opera

Giacomo Biagi

 

Lo sguardo, sul repertorio di Valdi Spagnulo, deve essere condotto e posato con un atteggiamento necessariamente strabico: frontale e laterale, in diagonale o in tralice, come anche di sotto in su. Questo perché il corpus dell’artista si offre quale opera reversibile, dalla natura incerta, dalla critica colta e con attenzione seguita sin dagli esordi. Dalle letture essenziali di Alberto Veca e Luciano Caramel, alla ricostruzione delle fonti e dell’opera di Spagnulo di Luca Pietro Nicoletti, dovessimo inscrivere d’un sol colpo questo compendio entro una prospettiva, cinque sarebbero i principali caratteri, che ne angolano il profilo: il continuo transfert tra bidimensione del piano e tridimensione di una struttura che si stacca e aggetta dalla superficie; i materiali trattati, come una pelle sensibile; le componenti cromatiche e grafiche, di innesti materici e serpentine; l’assorbente attenzione infine a motivi precedenti e coevi, consultati e coniugati entro un disegno inedito e peculiare.

Per questo abbiamo deciso, in questa sede, di parlare di ‘tropici’ della scultura: per riferirci al repertorio di Valdi secondo un carattere ancipite. Da una parte una scultura condotta ai minimi termini, e che se pure affermata, sempre è forzata a rinegoziare un proprio status, nella convivenza qui compatibile con altre arti e dimensioni; dall’altra un’opera la cui funzione appare sostanzialmente tropica, laddove il tropo svincola il significato tipico di un determinato campo semantico, trasferendolo a un altro contesto, e in tal modo rendendolo permutante e ricettivo.

Intanto, la compenetrazione tra segno, bidimensionale, e segno in tridimensione emerge con evidenza nell’opera di Spagnulo sin dai grandi telai distorti, esposti per una prima volta in occasione della mostra alla Galleria Spaziotemporaneo, 1999, e di cui Sfiorar la luna è erede: l’impianto di base, un telaio, è piegato e saldato sino a incurvarsi invadendo con decisione uno spazio per lui inconsueto. Il perimetro, dagli spessori asimmetrici aggetta, chiudendo una superficie vuota come in un quadro, attraversato da un segno lineare e intervallato da una coppia di falci: queste appaiono riprese a calchi dalla sottrazione laterale di materia, di un foglio in plexiglass tagliato col flessibile. Come moti rotatori, il gioco bidimensione-rilievo è cadenzato infine dall’asimmetria tra l’oggetto che sporge e l’ombra riportata la quale entra ed esce integralmente dall’economia dell’immagine. In altri esemplari la presenza e l’innesto di vetri o di plexiglass, gialli, azzurri e rosacei inseriscono inoltre una sensibilità cromatica, convalidando nell’irregolarità delle forme la dimestichezza dell’artista con il purismo e la dimensione timbrica della pittura geometrica e ‘astratta’ da una parte, e con il sintetismo e le forme continue di precise linee scultoree dall’altra. L’ambivalenza riposa anche nella posizione reversibile di queste opere nello spazio. Talvolta appoggiate con andamento verticale, talvolta orientate in senso orizzontale, talaltra elevate e fissate a parete, la differente installazione di una medesima opera muta il movimento di linee-forza e vettori, rendendola, a livello percettivo, un dispositivo plastico dalla agency costitutivamente attiva.

Meno evidente è al contrario un elemento che funge anche questo da leva tra superficie e profondità, ovvero il rapporto tra tridimensione e progetto. Spagnulo non realizza mai disegni preparatori o progetti funzionali alla genesi dei lavori, piuttosto la scultura diviene nel processo grafico, e il progetto opera invece da matrice. Indicativa è La domus di Zeus: se Spagnulo si forma come architetto, avendo piena contezza degli strumenti di un mestiere, questi non sono applicati secondo gli schemi e i codici tipici della costruzione; l’artista piuttosto ne attinge e rimodula la direzione attraverso leggi non scritte, ma non per questo meno valide. La struttura filiforme è resa infatti sghemba dalle parti saldate fra loro ed è ulteriormente mossa dagli innesti di plexiglass, ma quale anima irregolare disegna lo spazio, traducendo nella tridimensione una ipotetica pianta di una domus romana riportata in verticale e privata di alzato (in cui all’esoscheletro di un corpo centrale immaginiamo annettersi un potenziale peristilio). Il differente spessore delle parti in ferro e dell’acciaio inox restituiscono altresì, nella forma complessiva, un’ipotesi di sezioni murarie. Di là da una lettura semplicemente ecfrastica la conversione in impianto scultoreo converge con precisione in una coincidenza e identità dunque, a livello di concezione, fra tre arti, architettura, scultura e dimensione grafica, attraverso il progetto. Scultura come architettura come disegno quindi, ma senza i paletti dell’autorefenzialità, o della tautologia, perché la forma risulta scompensata anzitutto dal corpo a corpo con la materia. Come Nicoletti evidenzia si tratta de facto di una “scultura che si fa con il saldatore”: le piegature e le torsioni sono spesso realizzate per mezzo di uno sforzo fisico dell’artista, ogni aggetto è ottenuto mediante l’incidente e la frizione di un arto, pressato vigorosamente contro la lamiera; e gli assemblaggi di materiali trovati o di scarto sono a un tempo esito di un concreto lavoro di carpenteria. Anche i plexiglass risultano infine prima tagliati, poi smaltati, talvolta sporcati con polvere di ferro o graffite: una volta applicati all’opera, colpiti dalla luce, restituiscono tutta una serie di rifrazioni rispondenti anche ai difetti, agli intagli e alle gradazioni della loro superficie. Anche per Domus in aqua l’impianto a telaio dell’opera è ottenuto dall’artista saldando resti di tubi in acciaio prima bruniti in una stufa a legna la quale conferisce alla patina una tonalità dorata o dall’effetto blu forte; la serpentina che si diparte dall’estremo destro, la serpentina che sigilla l’opera a sinistra sono a loro volta ritagli ottenuti da un tondino di ferro, mentre il frammento di vetro di un azzurro melange è inserito entro un’apposita fenditura realizzata sulla superficie metallica sempre attraverso il flessibile.

Dal cannello alla brunitura in stufa, dai frammenti di plexiglass alle paste vitree o ai frammenti antichi di Murano, gli assemblaggi si caricano volta volta di un carattere che non si esaurisce nella dimensione formale. La materia è latrice altresì di un’eroticità trattenuta, entro il quadro di una composizione, in cui un declivio di carta bruciata (quale gluteo femminile di profilo e dilaniato) riposa su di un punto di ripresa frontale e schematico; un fil di ferro piegato aggancia le due sezioni in rilievo orientandosi a una vulva-fessura-casa. Passaggio onirico testimonia per questo di un paesaggio di materiali e segni che non trascurano ma con vitalità attingono a retaggi visivi e plastici che incidono sui lavori; da Valdi Spagnulo esperiti e poi trasformati, per tramite di un processo che intesse un double bind: tra la posizione e il tempo dell’opera, rispetto alla posizione, e all’hic et nunc, dello spettatore.

L’opera di Valdi è per questo un’immagine lenta. Per quanto costitutivamente formata dall’assemblaggio di materiali, da direttrici e linee forza concretamente presenti, questa si mostra secondo un processo lento di agnizione, per cui il personaggio e la sua biografia d’improvviso si rivelano, nel confronto tra chi guarda e un lavoro che parla la sua storia. La costellazione di Sferoidi de La via lattea, 2008-2009, tra componente rematica e componente tematica, si qualifica negli effetti come mappa celeste di lamiere piegate a caldo, dentellate e forate, le cui ombre nette entrano in gioco con i più fiochi riverberi dei peduncoli in plexiglass; ma l’installazione meglio si comprende se, come sostenuto dall’artista e osservato dalla critica, si reinserisce la genesi dell’opera nella sodalità, e il dialogo, che instaura Spagnulo con Grazia Varisco, membro storico del Gruppo T (una T che sta per tempo). Gli Gnomoni di Varisco, realizzati tra Settanta Ottanta, erano per lei tramite attraverso cui esperire, nei giochi di lamine e di pieghe, nonché di ombre proiettate, l’ambiguità e le implicazioni del muoversi progressivo del tempo entro uno spazio d’esistenza eminentemente fisico, disegnato dall’asta di una meridiana: e per questo da intendere nelle sue componenti e differenti declinazioni come Gnom-one, two, three. Per simmetria poetica, dopo la concretazione del tempo di Grazia Varisco, per mezzo di un’unità di misura meta-fisica potremmo dire ma terrestre, la Via Lattea di Spagnulo in misura lirica restituisce in scultura la distanza dei punti di luce della cartografia celeste. Il principio cinetico e stereometrico della prima, si traducono nel mosaico grafico, zigzagato e polimaterico del secondo.

Al proposito di iconografie plastiche derivate, Spagnulo con disinvoltura pone a sintesi i principali anelli di una catena: i materiali nonché l’organizzazione tensiva delle linee e delle forme, del primo Costruttivismo di Naum Gabo, per esempio, con la scultura di linea di Fausto Melotti, e il carattere mobile delle sculture di Calder. Ma, ancora, dalle forze surrealiste, elemento latente è l’attenzione all’hasard objectif degli oggetti a funzionamento simbolico, in particolare del primo Giacometti. È all’incedere dei Trenta che Alberto Giacometti inizia a meditare, in compagnia di Breton, su di un’opera d’associazionismo tutto particolare, composta di “une boule fendue suspendue dans une cage et qui peut glisser sur un croissant”: entro una struttura metallica a doppio telaio una mezzaluna si strofina maliziosa a una sfera, secondo un movimento cinetico ed entro una dimensione compatta. Contenitore di segni, 1998, riprende il doppio telaio, la dimensione della sfera e della falce; nel mantenimento dell’articolazione interna, non ne assume però la compattezza d’insieme: la gabbia è spezzata, il croissant pesantemente collassa, e la sfera è ridotta a segno grafico, esile e sospeso. Contenitore di segni, erede dell’esperienza di Spagnulo nell’informe, coniuga analisi e sintesi entro un’opera in cui la reciprocità tra volume esterno e ciò che contiene diviene riflessione intima e simbolica (ma forse anche divertita e sincera) dell’artista, che coniuga così a voce propria figure topiche della scultura.

L’interpretazione infine, nei bilanciamenti della materia, nella sintassi semantica articolata in rilievo, è un viaggio comunque affidato all’osservatore. Guardando agli spigoli vivi di 4 Contra Domum, focalizzando il contrasto tra piano metallico e foglio di vetro, si pone attenzione all’asimmetria dell’apertura angolare; ed è impossibile per chi scrive non suggerirvi un’organizzazione d’insieme per piani, essenzialmente frontali ma in disasse, costituitasi, possibilmente, anche sulla scia di una certa scultura primaria, in particolare inglese. Ma non posso fare a meno, nel codice primitivo, di intercettare e riconoscervi anche lo squadrato profilo di una figura sdraiata, con fallo in erezione. Sullo sfondo l’immagine trasparente e vitrea di uno specchio di acqua che s’incunea in una baia; e sulla testa un diadema di piume di araras smaltate di bianco, di arancio e di blu: copricapo cerimoniale e di festa tipico degli indigeni Bororo. Questa immagine è tanto vera e d’invenzione quanto l’assemblaggio ponderato delle parti che Spagnulo monta e tratta, anche nei PS dei Progetti per Scultura: poscritti di un’opera permeabile al caso.

 

 


2023

9 marzo 2024 / CENNI CRITICI /
Valdi_Spagnulo_Fermar_l'aria_ 2023

VALDI SPAGNULO – FERMAR L’ARIA

Palazzo Sarcinelli e Galleria Oltreartecontemporanea – Conegliano Veneto (TV)

I frammenti d’aria di Valdi Spagnulo.

Luca Pietro Nicoletti

La ricerca di Valdi Spagnulo, come è stato più volte ricordato dalla critica, rimonta a un filone della scultura del Novecento che ha staccato fra loro i concetti di “volume” e “massa”, rinunciando alla dimensione tattile della forma sia nell’atto creativo che in quello di fruizione: toccare l’opera, infatti, non arricchisce l’esperienza sensibile di chi la avvicina, e altrettanto non ha un ruolo rilevante nel lavoro di costruire e realizzazione pratica dell’immagine. Accantonati infatti sia la modellazione sia l’intaglio, le tecniche dell’assemblaggio hanno inserito una logica nuova nei processi creativi. La scultura, infatti, non costruisce lo spazio, ma lo evoca: è attraversabile sia con lo sguardo sia con il corpo, e si completa con l’aria che le circola attorno e lo spazio con cui si trova a interagire. Il tema di fondo rimane l’alleggerimento visivo della scultura e la sua possibilità di relazione spaziale attraverso un “disegno” tridimensionale. Seguendo il solco della scultura “di linea”, di forte concentrazione lirica e per vocazione antimonumentale, la scultura di Spagnulo cerca un rapporto con l’architettura e mostra l’intenzione di delineare un limite, di tracciare i confini strutturali di uno spazio virtualmente abitabile. Non si tratta di una scultura “fragile”, per quanto la prima impressione possa dare l’idea di qualcosa di effimero rispetto alla solenne gravità della statuaria: il perimetro che delimita le sue “domus”, il tronco arboreo dei suoi “riverberi”, è un limite solido, su cui virtualmente si può costruire un “edificio” e completare il volume pieno di cui la sua opere ci ha lasciato come uno scheletro. Eppure, pur con un occhio attento a certe istanze dell’avanguardia aniconica, o a quelle tendenze dell’astrazione su base geometrica, la sua opera non ha mai la durezza intransigente dei veri “costruttori”, perché nei profili irregolari delle sue strutture in ferro si inserisce un elemento inquieto e intemperante, un guizzo che provoca una tensione interna drammaticamente connotata. Valdi, in fondo, ambisce alla geometria, ma non cede alla disciplina costruttiva, ingaggiando un vero e proprio corpo a corpo con il metallo piegato che ha un valore esperienziale e liberatorio, come ci fosse una tensione più forte e viscerale che cova sotto la cenere, e che nella scultura sfocia nell’andamento irregolare delle piegature.

Allo stesso tempo, in fase di allestimento, Valdi Spagnulo ragiona da sempre sul rapporto fra l’opera e la sua ombra proiettata sulla parete, che talvolta diventa vero e proprio raddoppio in una dimensione effimera e impalpabile, enfatizzando linee e intrecci, nodi e punti di crescente tensione drammatica.

A partire dagli anni Duemila irrompe poi nella sua ricerca un inedito elemento atmosferico: è il dato iconografico che dà un risvolto evocativo alla sua via all’astrazione, che gli consente di assimilare in maniera originale una serie di elementi presi a prestito dalle precedenti generazioni della scultura di linea. È facile risalire la china fino a Melotti come capostipite, con più attenzione per gli accenni lirici della scultura del dopoguerra, che a Milano circolava molto fra anni Ottanta e Novanta, e che molto aveva da dire per certe ricerche visuali di quella stagione. Ma da solo Melotti – anche il più narrativo e romantico inventore di filiformi figure e primordiali simboli di natura ritagliati in lamina di metallo – non basta per capire questa ricerca, anche per il fatto che in quegli anni, prima della definitiva conversione alla scultura, Valdi era ancora esclusivamente pittore.

Bisogna guardare dunque più vicino, senza distinzioni troppo nette fra quanto possa provenire dalla storia della scultura e quanto possa esser stato preso a prestito da esempi pittorici, e pensare alla linfa che poteva aver tratto facendo per esempio una mostra a due con Gabriella Benedini, al tempo delle prime “arpe” dell’artista cremonese. Una certa idea di assemblaggio, con inserti che paiono piuttosto parenti di un vero e proprio collage, potevano avere una sintonia con quell’esempio frequentato così da vicino. Oppure, in tempi più vicini, le lastre di vetro ondulato issate come icone da Giancarlo Marchese potevano aver suggerito una strada per inserire nella scultura un’idea di trasparenza e di leggerezza, una rifrazione luminosa fatta di riflessi sulla superficie. Al vetro, però, Valdi Spagnulo preferì sostituite il plexiglass, e dare al contempo una diversa ragione e funzione visiva alla trasparenza in scultura.

Accanto a questi, poi, ci sono i pittori che hanno costituito un punto di riferimento per lui. Ne sono conferma le mostre a due tenute nel corso della sua carriera con artisti di una generazione precedente, a partire da quella con Gabriella Benedini, per poi arrivare a quelle con Mario Raciti (2018) e con Enrico Della Torre (2022).

Una suggestione per leggere le sue Domus, invece, viene dalle Lettere a Palladio di Giuseppe Santomaso: grandi quadri magri di materia, diafani, giocati su una linea unica che andava a tracciare il profilo di un edificio, o almeno il perimetro di uno spazio, con un inserto di colore sospeso (la lettera appunto) applicato a collage o dipinto come qualcosa di sovrapposto alla struttura. Dipinti come questi erano stati tema di una mostra del pittore veneziano negli anni Ottanta che Valdi vide, riportandone una forte impressione che sarebbe riemersa molti anni più tardi. Del resto, viene quasi naturale, pensando al suo lavoro, far affiorare nella memoria esempi che pertengono al campo della pittura, e in modo particolare quella pittura in cui l’intreccio narrativo è dato da una sovrapposizione di linee e di andamenti lineari che l’occhio può seguire passo passo. È la lezione di Osvaldo Licini, dagli anni de “Il Milione” a quelli degli Angeli ribelli, che da quella china risale, per limitarsi a esempi lombardi, a Valentino Vago ed Enrico Della Torre: una pittura in cui si legge, oltre al soggetto, l’andamento della mano che traccia un percorso sulla tela e che da quella fluidità di gesto trae con naturalezza il profilo di un’immagine o di una figura. Per Valdi questo si traduce però in linea di ferro: la piega, come è stato detto più volte, viene fatta a mano, torcendo la materia in modo da darle un guizzo di vita, con un progetto di costruzione progressiva dell’immagine che si fa nel momento stesso della sua realizzazione pratica e che, un po’ alla volta prende forma. Valdi stesso ne parla in questi termini: comincia con una piega, poi verifica qualche reazione ha il metallo nel momento in cui viene scaldato e sollecitato con la fiamma, piegandosi in maniera non sempre prevedibile: con la piega quale indicazione di partenza, poi pensa a legare le parti, ad assemblarle fra loro, ad aggiungere parti, a inserire frammenti di plexiglass che, come la “lettera” di Santomaso, fluttuano in uno spazio incerto. È proprio in questa accezione che si può intendere la scultura come “disegno” che si articola sulle tre dimensioni e crea un itinerario evocativo.

Il dialogo con questi punti di riferimento, come nel caso dell’abbinata fra la pittura di Mario Raciti e la scultura di Valdi Spagnulo, è asincronico ed atemporale: sono le ricerche di due artisti anagraficamente distanti che si seguono e si stimano da tempo, e che trovano un momento di convergenza e di dialogo fra generazioni all’insegna di un condiviso orizzonte di valori artistici e visivi. Il dialogo metalinguistico che viene a instaurarsi fra i due, in fondo, si basa su un’idea di linea non tanto come elemento fondante di una grammatica visiva, ma come vero e proprio strumento di narrazione: la linea è tema e protagonista sia della pittura di Mario sia della scultura di Valdi come indicatore di uno sviluppo e articolazione che struttura il campo creando una tensione al suo interno. Che questo sia poi una struttura dimensionale che si misura con il vuoto e con la necessità di delimitare uno spazio, o bidimensionale e con la necessità di smarcare la traccia pittorica da eventuali confusioni con la scrittura, entrambi invitano l’occhio del fruitore a compiere un itinerario palmare sulla superficie, a seguire passo passo il dipanarsi del segno nel suo svolgimento. In questa accezione, l’itinerario è un racconto (o una melodia): qualcosa che comincia in un punto, ha uno svolgimento e una conclusione, e che mantiene quella struttura anche quando il significato si presenta incerto, lasciando volutamente degli ampi margini di interpretazione e, non ultimo, di emozione.

Anche fra Enrico Della Torre e Valdi Spagnulo passava una generazione, ma un filo sottile teneva insieme il dialogo fra di loro. Ad accomunare le due esperienze, specialmente le opere recenti di Valdi e la stagione estrema del pittore cremonese, è un debito nei confronti del collage, e dell’approccio mentale al problema dell’immagine dato dall’assemblaggio di sagome e materiali. Per Della Torre, in particolare, il passaggio cruciale avvenne nei primi anni Ottanta secondo la lezione del “papier decoupée” matissiano: frammenti di carte colorate in contrappunto con pastello e campiture piatte lo avevano allontanato dal mondo surreale e notturno delle fantasmatiche figure acquatiche degli anni Settanta, in favore di una compattezza architettonica. A monte, per lui come per Valdi, c’era l’idea di un’immagine costruita per somma di frammenti, che nel primo caso andavano a ricomporsi in una struttura compatta, mentre in scultura davano spazio a una ulteriore apertura e articolazione di elementi sospesi nello spazio. Per frammenti, infatti, Valdi va a introdurre nel telaio metallico inserti di altri materiali, avendo cura di preservare quell’impressione di una scheggia acuminata di realtà su cui si sono depositate le tracce del tempo: sagome irregolari dal profilo aguzzo, in cui, prendendo a prestito una felice espressione della critica, si potrebbero recuperare “spessori di memoria”. Anche questo non fa di lui un “costruttore”, per quanto i suoi telai siano studiati accuratamente negli incastri e nelle giunture come si confà a una scultura che può essere smontata e rimontata ad ogni installazione: sul metallo e sul plexiglass, infatti, interviene con incisioni più o meno superficiali, graffi e scheggiature leggere che modificando l’effetto riflettente della superficie. Allo stesso tempo, nascono da una logica non diversa da questa i suoi collage di carte dipinte, trattate per sembrare lamiere in un continuo scambio di ruoli fra illusioni di materiale e tecniche di montaggio: il palinsesto di carte verniciate e combuste, strappate sui bordi e sottoposte a invecchiamento, conserva la leggerezza di elementi fluttuanti sullo sfondo, ma anche l’impressione di un reperto del Costruttivismo riemerso da uno scavo.

Eppure, la funzione del frammento, incastrato sul telaio o applicato all’estremità di una linea dall’andamento sinuoso, è squisitamente narrativa: da lontano resta memoria dei “mobiles”, che a loro volta nascevano da una fantasia ludica intorno a Mondrian, ma anche di certo surrealismo condensato dai pittori della generazione del Trenta.

Anche nel momento più austero e costruttivo, infatti, Della Torre non aveva dimenticato i toni e gli accordi luminosi del mondo naturale: le terre si armonizzano con i verdi e gli azzurri, mantenendo un pregnante significato analogico, tenendo salda nel pittore la memoria del paesaggio della bassa cremonese natia e delle cime valtellinesi del suo rifugio di riposo. I formati panoramici, lunghi e stretti, sono rimasti poi quelli di una pittura astratta concepita come un paesaggio, seppure a un grado di sofisticazione più elevato. In Valdi era accaduto qualcosa di analogo, e non solo per la scelta di inserire degli elementi di colore, ma per una comune sensibilità verso il dato naturale che ora si fa più evidente.

Come suggeriscono due grandi sculture, infatti, il foglio di plexiglass curvato, trasparente o di colore tenue, serviva metaforicamente a Fermare l’aria (2007) o a trattenere un Lembo di cielo (2006). Da questo punto di vista, le strutture in ferro piegato si qualificano come dispositivi messi a punto quali supporto monumentale per questi frammenti di realtà, amplificando l’allusione a quel possibile prelievo dalla natura: un materiale industriale, del tutto artificiale, finiva così per trasformarsi metaforicamente in una solidificazione di materia aerea e impalpabile.

In un secondo tempo, con i primi Riverberi del 2009, sarebbe arrivato poi a una immedesimazione della struttura metallica con una futuribile forma arborea, con foglie e fusti d’acciaio e boccioli di plexiglass trasparente: alla giustapposizione era subentrato l’incastro, l’ibridazione fra materie. Ma soprattutto, Valdi Spagnulo aveva cominciato a ragionare sul tema del riflesso, grazie a delle basi sagomate specchianti: il cielo, ora, anziché essere evocato entrava nell’opera, se la scultura veniva esposta in esterno, o in ogni caso dava l’impressione di uno specchio d’acqua apparso all’improvviso ai piedi della scultura.

Allo stesso tempo, dalla scultura singola l’artista stava passando a una visione a gruppi, avvicinando varie sculture di questa seria fino a creare una selva vera e propria.

Erano, queste, le premesse necessarie per giungere a Contrappunto, la grande scultura ambientale realizzata nel 2018 per la mostra milanese del gennaio 2019: un grande perimetro di lastre d’acciaio, come un grande lago da cui salivano come giunghi lunghi steli di acciaio lavorato, piegato e fresato, con altrettanti inserti di plexiglass colora, come estremità fiorite di questo insieme visionario.

Il colore ha fatto la sua comparsa nella scultura di Valdi Spagnulo proprio in quel momento. Non è quindi un retaggio dei suoi esordi da pittore – quando Gillo Dorfles prima di altri riconobbe nelle sue tele polimateriche e rugginose il preludio della ricerca plastica di poco successiva – ma un’idea nuova. In quell’occasione, infatti, Valdi aveva intuito che poteva sviluppare il proprio discorso espressivo in una direzione nuova, dopo aver già rodato il connubio tra ferro e plexiglass, dando un colore a quelle parti di scultura trasparenti, attraversate dalla luce, che accentuavano l’impressione di leggerezza tipica del suo lavoro incastonandosi come delle gemme luminose.

La scultura di Valdi Spagnulo, infatti, nasce secondo un principio intuitivo, seguendo la vocazione naturale del metallo piegato a mano, conservando la spontaneità di un disegno lineare dallo sviluppo tridimensionale, perimetro di un volume virtuale e attraversabile: una linea ne richiama un’altra, richiede un contrappeso visivo che offra all’occhio un punto su cui sostare alla fine di un itinerario di linea in linea, fra architravi e contrafforti di una “domus” iperuranica. In definitiva, Valdi eredita la tradizione della scultura fatta di assemblaggio, ma vi porta la sensibilità tipica del collage frontale e bidimensionale, e con pezzi di plexiglass colorato e, dal 2023, frammenti di vetro di murano antico che discendono direttamente dal Santomaso delle Lettere a Palladio: un richiamo all’architettura, insomma, ma tradotto con sensibilità pittorica, e con un’allusione iconografica inedita per il suo lavoro. Eppure, con il passaggio dal plexiglas al vetro antico, qualcosa è cambiato, un po’ per via della fragilità di un materiale che non si congede alla manipolazione, e un po’ per quell’elemento cromatico prezioso che porta con sé, come gemma incastonata nel metallo, ma anche come intenso punto di colore che catalizza l’attenzione e orienta la lettura della scultura, arricchendo anche la qualità delle ombre portate di trasparenze e motivi di superficie altrimenti difficilmente percepibili. È chiaro che non poteva che portare a una riassesto degli equilibri interni al campo del telaio, o nelle torsioni aperte dei reverse: il colore saturo e intenso del vetro, infatti, offre un’inedita spinta alla macchina nel suo complesso. Nelle sagome di questi oggetti “trovati”, oltretutto, si riconoscono profili che ricordano soli, lune, o segmenti di mare. Sono dettagli di memoria e di nostalgia, ricordi delle proprie origini pugliesi e di colori nitidamente impressi nella memoria anche dopo decenni trascorsi in Lombardia.

In questo, forse, torna a quel punto il confronto con Della Torre: è una tensione poetica ad animare questi due artisti, e che ha permesso loro di intrappolare nelle loro opere una scaglia di terra o un lembo di cielo.

 

 


Valdi Spagnulo Tropici della scultura – Studio 28nero Firenze 2024

9 marzo 2024 / NEWS /
Valdi Spagnulo  - 15 1 2024

 

Valdi Spagnulo. Tropici della scultura

testo di – Giacomo Biagi

Studio 28nero - via Ghibellina 28r, 50122 Firenze

22 marzo – 22 aprile 2024

Opening venerdì 22 marzo, ore 18:30.

 

Venerdì 22 marzo, presso Studio 28nero, inaugura la prima mostra monografica dedicata a Valdi Spagnulo in Firenze. Valdi Spagnulo. Tropici della scultura, accompagnata da un catalogo con testo di Giacomo Biagi, presenterà gli assemblaggi, i grandi telai distorti e le composizioni di linea in ferro e acciaio inox, di un artista dal consolidato background e che ha operato con costanza nel segno di un ripensamento pratico di cosa si possa intendere per scultura e al contempo per immagine. Per una prima volta in una sede fiorentina, la mostra proporrà un confronto tra opere distintive dei primi anni 2000 e del decennio successivo, con la produzione recente, per cogliere i caratteri di continuità e discontinuità di una produzione, proposta qui entro una lettura ulteriore di quel modo, peculiare di Spagnulo, di applicarsi alla pratica scultorea. Esemplari come Sfiorar la luna, 2005, o realizzazioni come La domus di Zeus, 2015 perimetrano con le loro strutture a terra o a parete una poetica la quale si qualifica per una distintiva compenetrazione tra la bidimensionalità del disegno e del piano pittorico, con la tridimensionalità e il volume dei codici viceversa tipici di scultura e architettura. Opere recenti come Domus in aqua, 2023, testimoniano della continuità della produzione dell’artista in linea alle precedenti stagioni, ma nella reinvenzione dei disegni d’insieme, dei meccanismi plastici e delle linee forza che scandiscono l’immagine. La mostra sarà occasione per cogliere anche il passaggio di Spagnulo alla sperimentazione di nuovi materiali e ulteriori formati: la stagione dei plexiglass, colorati e trattati, delle prove dei primi 2000 sarà confrontata a opere in cui sui telai distorti e le strutture metalliche, Spagnulo inserisce adesso frammenti di pasta vitrea e vetro soffiato, la cui natura materica carica di nuova sensibilità ciascuna realizzazione. Suggestioni alle volte paesaggistiche alle volte zoomorfe, si combinano con una sintassi di contrasti materici cadenzata da retaggi volta volta rinegoziati: costruttivisti, surreali o dal primitivismo archetipo, e nondimeno inscrivibili entro i codici qui derogabili della scultura analitica, ma arricchiti di una lavorazione e di una sensibilità ereditata dalla stagione dell’informe. Esordiente pittore negli anni Ottanta, intercettato e valorizzato da critici e storici dell’arte come Franco Solmi e Elena Pontiggia, Rossana Bossaglia e Luciano Caramel, è il il 2017 quando Matteo Galbiati e Kevin Mc Manus affermano come la scultura di Valdi si imponga quale “grafismo concreto nello spazio, dove segno, materia, architettura, pittura, scultura e disegno paiono fondersi nel gradiente primigenio che le accomuna”, per Luca Pietro Nicoletti infine un dinamismo mistilineo, in cui all’assemblaggio si accompagna un’esigenza narrante restituita entro un “improvviso appunto visivo”. In questa occasione l’immagine-quadro pur sempre presente nell’opera di Spagnulo è presentata in tal senso come un “tropico”, secondo una doppia accezione: da una parte quale tropico in grado di porre a critica e sintesi le consuete distinzioni mediali tra scultura, pittura e disegno; dall’altra come un segno “tropico” in cui all’insieme strutturale e portante, corrisponde pur sempre la possibilità di un’interpretazione non auto-referenziale, bensì immaginifica e intuitiva.

 

Valdi Spagnulo nasce a Ceglie Messapica (Brindisi) nel 1961. Nel 1973 con la famiglia si trasferisce a Milano, aprendosi all’ambito europeo con viaggi in Francia, Germania, Svizzera e iniziando studi artistici dapprima al Liceo Artistico di Brera, poi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1984. L’inizio degli anni Ottanta segna il suo esordio come pittore e l’avvio di una fitta attività espositiva: si segnalano le lunghe collaborazioni prima con la Galleria delle Ore di Giovanni Fumagalli, poi con Spaziotemporaneo di Patrizia Serra. Nel 2001 riceve il primo Premio per la Pittura dell’Accademia di San Luca a Roma, mentre sempre agli anni 2000 risalgono numerose mostre personali e collettive. Al 2023 datano invece la partecipazione dell’artista al Premio d’arte città di Treviglio, a cura di Sara Fontana, e Valdi Spagnulo – Fermar l’aria, curata da Luca Pietro Nicoletti presso Palazzo Sarcinelli a Conegliano Veneto. Attualmente docente di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, vive e lavora principalmente a Milano.

 

La mostra sarà visitabile dal 22 marzo al 22 aprile 2024 presso Studio 28nero, via Ghibellina, 28r Firenze ,dal lunedì al venerdì, 15.00-18.00, e il sabato 10.00-18.00.

Per info su orari e accessibilità: +39 3493805121; + 39 3356400054; at@28nero.it