Linee. Mario Raciti Valdi Spagnulo
Villa Arconati Bollate (MI)
Premessa.
La mostra propone un dialogo fra artisti di generazioni differenti attivi a Milano: Mario Raciti (Milano 1934) e Valdi Spagnulo (Ceglie Messapica 1961). Non dunque due artisti assortiti con due mostre nello stesso luogo, ma due linguaggi chiamati a provocare un cortocircuito formale e poetico entro la cornice storicamente connotata di Villa Arconati-FAR. In questo modo si intende portare avanti la linea sperimentale che ha contraddistinto l’attività di Espace Kiron a Parigi e, ora, a Castellazzo di Bollate: l’arte contemporanea, all’interno di una cornice già nel suo passato ricca di opere d’arte e ancora intrisa del suo antico fascino di Villa di delizie, dà una nuova vita sperimentale e non canonica agli spazi di una dimora storica. La stessa dichiarazione che i due artisti hanno voluto rilasciare in occasione di questa mostra è un segnale chiaro di questa intenzione di valorizzare ricerche artistiche che hanno difeso una indipendenza e autenticità di ricerca non disposta a piegarsi alle mode culturali del momento.
Accomunati da una ricerca sviluppatasi intorno alle possibilità di un racconto astratto attraverso la pittura (Raciti) e la scultura (Spagnulo), il dialogo che la mostra cerca di stabilire fra loro nonostante la distanza di medium artistico vuole evidenziare una riflessione intorno al tema della leggerezza, sia essa ottenuta attraverso uno smagrimento del segno grafico, purificato da qualsiasi elemento non necessario che dia ridondanza retorica alla raffigurazione; o che sia il frutto di una struttura metallica piegata a mano e costellata di interventi luminosi ottenuti grazie all’ibridazione di metallo lucidato e plexiglass, che per via di trasparenza arricchisce la qualità luminosa della scultura.
Su questa via, i due artisti accompagnano il visitatore in un viaggio poetico all’interno di uno spazio via via più rarefatto e sottile, aulico e misterioso, incerto nei confini ma forse proprio per questo capace di toccare le corde esistenziali, come se la linea, con il suo andamento sinuoso e danzante, potesse dare un po’ di quiete metaforica ai tortuosi percorsi di vita e di esperienza del mondo moderno.
Dichiarazione degli artisti.
Questa esposizione crediamo abbia un senso particolare. E’ un tratto di catena, anelli tra generazioni che son nate attuali e propositive, ma vivono nascoste, in un ambito più interno ,fatto di tensioni e interrogativi, rispetto alle più celebrate “ufficialità”. In questa nostra particolare catena a monte ci sono altre maglie (Licini si dice per Raciti, o ancor più certo simbolismo da Böcklin a Max Klinger; Melotti, Fontana per la forma informe, ma pulita e sapida, di Spagnulo che, non nega più attuali e contemporanei sapori come Uncini, Staccioli, Almagno). Ma soprattutto, nell’ambito di un non allineamento a tante ricerche “fredde” dell’ora, una volontà profonda di libertà e di visionario senso dell’“assenza”, come forse qualcosa da evocare che oggi la storia non permette e domani forse potrà. Le nostre opere, remote e attuali, allusive e nascoste, necessitano di attenzioni dirette che coinvolgano più sensi possibili: non si possono raccontare per telefono. Altre catene come la nostra, di contenuti differenti, ma sempre vicine alle emozioni e alle complessità umane, serpeggiano nelle strettoie che la storia ci ha riservato. Speriamo che eventi di questa natura continuino con nuove generazioni.
Mario Raciti e Valdi Spagnulo
Mario Raciti / Valdi Spagnulo. Appunti di un dialogo.
Lorenzo Fiorucci e Luca Pietro Nicoletti
I. Il dialogo fra la pittura di Mario Raciti e la scultura di Valdi Spagnulo è asincronico ed atemporale: sono le ricerche di due artisti anagraficamente distanti che si seguono e si stimano da tempo, e che trovano un momento di convergenza e di dialogo fra generazioni all’insegna di un condiviso orizzonte di valori artistici e visivi. Il dialogo metalinguistico che viene a instaurarsi fra i due, in fondo, si basa su un’idea di linea non tanto come elemento fondante di una grammatica visiva, ma come vero e proprio strumento di narrazione: la linea è tema e protagonista sia della pittura di Mario sia della scultura di Valdi come indicatore di uno sviluppo e articolazione che struttura il campo creando una tensione al suo interno. Che il campo sia poi una struttura dimensionale che si misura con il vuoto e con la necessità di delimitare uno spazio, o bidimensionale e con la necessità di smarcare la traccia pittorica da eventuali confusioni con la scrittura, entrambi invitano l’occhio del fruitore a compiere un itinerario palmare sulla superficie, a seguire passo passo il dipanarsi del segno nel suo svolgimento, come la linea portante di un’esecuzione musicale. In questa accezione, l’itinerario è un racconto (o una melodia): qualcosa che comincia in un punto, ha uno svolgimento e una conclusione, e che mantiene quella struttura anche quando il significato si presenta incerto, lasciando volutamente degli ampi margini di interpretazione e, non ultimo, di emozione. [lpn]
II. Che la linea sia il carattere di congiunzione che unisce alla distanza due generazioni a confronto come quella di Mario Raciti e Valdi Spagnulo è un dato sostanzialmente innegabile e facilmente riscontrabile. Un dialogo che tuttavia trova una radice comune non tanto nella linea in quanto tale, cioè elemento di geometria primaria o segmento di congiunzione, quanto piuttosto in una ragione più intellettuale che si sviluppa come disegno nella mente degli autori. Per Raciti il segno colorato emotivamente palpitante assume infatti talvolta la necessità di fissare su carta o tela, l’impronta di una visione concentrando lo sforzo nella rappresentazione di quella dinamicità che lo spettro del pensiero offre nello spazio limitato di pochi attimi entro i quali fissare il passaggio mentale dell’immagine. Un’apparizione da catturare con linee appunto come un’epifanica manifestazione di senso. In Spagnulo non sussiste diversamente una visione speculativa quanto piuttosto una riproposizione di una realtà emotivamente percepita, certo rielaborata immaginativamente dall’autore se non addirittura vissuta nella sua manifestazione. La linea in Spagnulo è misura dello spazio, scansione ambientale ritmica con cui confrontarsi e talvolta rivaleggiare con le linearità naturali. In entrambi i casi si ricorre alla possibilità espressiva della linea, alla sua versatilità formale, approdando ad una dimensione lirica e vibrante attraverso punti luminosi o riflettenti, specchio dell’essere più intimo e personale dell’artista. Linea abbiamo detto, ma non solo. In entrambi gli artisti emerge il dato cromatico; forse più evidente nelle recenti opere di Spagnulo, più duraturo invece per Raciti. Una necessità che definisce la linea grafica del dipinto o della scultura, qualificandone l’impianto in termini emozionali. [l.f.]
III. Più di altre esperienze del suo tempo, la pittura di Mario Raciti sfugge a definizioni e descrizioni: resta un fondo indistinto di cui è difficile dare una traduzione in termini verbali. L’artista stesso, in fondo, rispondendo a un’intervista prendeva una posizione netta per un certo modo di intendere le arti visive come uno specifico linguistico che non poteva essere riferito in altro modo che tramite l’esperienza della vista: la vera opera d’arte, ha sempre sostenuto Mario, non si può descrivere telefonicamente, perché questo significherebbe che l’elaborazione artistica si è spostata su un piano verbale e che non è più necessaria la fruizione dal vivo per poter visualizzare mentalmente l’esito formale. In altri termini, la pittura di Raciti sfugge a qualsiasi possibilità di restituzione ekfrastica, che non vuol dire tuttavia che non sia adatta a stabilire un dialogo con la letteratura e la poesia. Al contrario, anzi, con questa si stabilisce un dialogo emotivo che si muove sul crinale di un sentimento indistinto ed evocativo, in cui le cose appaiono in una forma stilizzata fino a sembrare graffiti. In una parola, Mario Raciti è un pittore “ermetico”, in cui la dominante è un flusso istintivo che lascia delle tracce impalpabili. In un primo tempo, nei pieni anni Sessanta, quando una scelta come la sua poteva apparire di reazione a quella pittura di impasti densi e modellati su tela della generazione precedente, il suo discorso era di puro gesto, quasi un automatismo surrealista: iniziava in un punto con un brano grafico, poi con uno scarto improvviso mutava direzione e in questo modo, un po’ alla volta, creava dei percorsi che attraversavano la tela. In un secondo momento, fra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, aveva messo definitivamente a punto un repertorio di simboli icastici e istintuali, già molto presenti anche nella pittura precedente, che costituivano i punti di riferimento della perlustrazione del campo. Il dipinto, a quel punto, poteva somigliare a una mappa entro cui il pittore aveva tracciato un percorso. Solo fra anni Novanta e Duemila, con l’addensarsi di un impasto bianco di calce più forte, la sua pittura avrebbe modificato ulteriormente il suo statuto. La definizione di uno spazio, già fluttuante, diventa enigmatica: quella che a un primo sguardo può sembrare una indicazione di paesaggio, in realtà è solo una demarcazione della composizione che serve a definire sul piano un “sopra” e un “sotto”. Non si sa bene se i suoi Fiori del profondo e le altre figurazioni che animano le tele venute dopo siano sul punto si sfaldarsi, solarizzate in un contrasto luminoso quasi abbagliante, o se stiano emergendo da un fondo, presentandosi ancora avvinte da una materia calcinosa e in lotta per uscirne. Eppure nel tempo Raciti non è venuto meno a una coerenza e a una fedeltà nei confronti del racconto di linee: in questo campo dai contorni indistinti, che punta a uno sfondato in profondità ma poi si risolve in una tensione sul piano, al fruitore si chiede di seguire la linea come un vettore che conduce a un vertice emotivo: in un crescendo sinfonico, lo sguardo arriva a un apice drammatico e luminoso. [lpn]
IV. Mario Raciti è probabilmente un apolide della pittura, difficilmente racchiudibile in uno schema fisso puramente catalogatorio. Le sue figure, indeterminate già nel titolo Una o due figure realizzate nell’ultimo biennio, si mostrano come visioni pittoriche nate da quel labile confine tra la vigile coscienza e l’onirico inconscio che risiede nei meandri della mente, in cui vita reale e vita immaginata si mescolano in un turbinio di emozioni difficilmente distinguibili, ma da dove emergere in sostanza lo stato d’animo che si mostra nella sua consistenza in quanto stato emotivo, fisico e mentale dell’artista. Lo forzo di Raciti è semmai fissare nell’immediatezza la visione, senza restituire mai i contorni precisi, che sfuggono all’uomo, quanto piuttosto le scie cromatiche, i segni lasciati dal passaggio di un presente fuggevole di quello “stato” che, come ricordava Arcangeli descrivendo il lavoro tormentato di Leoncillo in certe sue fasi individua la trascrizione di uno stato come qualcosa “che c’è e pesa”. All’inverso Raciti fotografa non la pesantezza dello stato d’animo quanto la sua momentanea presenza, l’apparizione di questo. Per l’artista lo stato è qualcosa di dinamico e fuggevole, che c’è stato e che si è fatto ricordo, alleggerendosi in tenui cromie prive di contorni in cui la composizione si costruisce per colpi di luce, scie luminose che illuminano la scena. Il buio è infatti raramente contemplato nelle pitture o nei pastelli di Raciti, non perché non rappresenti uno stato, ma perché lo sforzo di immortalare l’attimo fuggente è più importante dell’oblio dal quale emerge e scompare. I suoi quadri sono infatti in genere su fondi bianchi o chiari e più che segni cromatici sono scie luminose come code di comete transitate, che restituiscono il sapore più che il peso di un’immagine o di una figura. Un focus esclusivo giocato sull’essenza luminosa dai toni chiari che talvolta sembrano trovare comunanza nelle più visionarie opere di Osvaldo Licini, anche se il marchigiano non rinuncia alle cromie intense e forti della propria terra di origine, cromie che in Raciti diventano più tenui e lucenti quasi flash rubati alla psiche, immortalando gli spettri che affollano l’anima, oltre che la mente dell’artista. [lf]
V. Una suggestione per leggere le Domus di Valdi Spagnulo viene dalle Lettere a Palladio di Giuseppe Santomaso: grandi quadri magri di materia, diafani, giocati su una linea unica che andava a tracciare il profilo di un edificio, o almeno il perimetro di uno spazio, con un inserto di colore sospeso (la lettera appunto) applicato a collage o dipinto come qualcosa di sovrapposto alla struttura. Dipinti come questi erano stati tema di una mostra del pittore veneziano negli anni Ottanta che Valdi vide, riportandone una forte impressione che sarebbe riemersa molti anni più tardi. Del resto, viene quasi naturale, pensando al suo lavoro, far affiorare nella memoria esempi che pertengono al campo della pittura, e in modo particolare quella pittura in cui l’intreccio narrativo è dato da una sovrapposizione di linee e di andamenti lineari che l’occhio può seguire passo passo. È la lezione di Osvaldo Licini, dagli anni de “Il Milione” a quelli degli Angeli ribelli, che da quella china risale, per limitarsi a esempi lombardi, a Valentino Vago ed Enrico Della Torre: una pittura in cui si legge, oltre al soggetto, l’andamento della mano che traccia un percorso sulla tela e che da quella fluidità di gesto trae con naturalezza il profilo di un’immagine o di una figura. Per Valdi questo si traduce però in linea di ferro: la piega, come è stato detto più volte, viene fatta a mano, con un progetto di costruzione progressiva dell’immagine che si fa nel momento stesso della sua realizzazione pratica e che, un po’ alla volta prende forma. Valdi stesso ne parla in questi termini: comincia con una piega, poi verifica qualche reazione ha il metallo nel momento in cui viene scaldato e sollecitato con la fiamma, piegandosi in maniera non sempre prevedibile: con la piega quale indicazione di partenza, poi pensa a legare le parti, ad assemblarle fra loro, ad aggiungere parti, a inserire frammenti di plexiglass che, come la “lettera” di Santomaso, fluttuano in uno spazio incerto. È proprio in questa accezione che si può intendere la scultura come “disegno” che si articola sulle tre dimensioni e crea un itinerario evocativo. La scultura, infatti, non costruisce lo spazio, ma lo evoca: è attraversabile sia con lo sguardo sia fisicamente in maniera effettiva. Ciononostante, la sua non è una scultura “fragile”: il perimetro che delimita le sue “domus”, il tronco arboreo dei suoi “riverberi”, è un limite solido, su cui virtualmente si può costruire un “edificio” e completare il volume pieno di cui la sua opere ci ha lasciato come uno scheletro. [lpn]
VI. La scultura di Spagnulo disorienta l’osservatore che si trova d’innanzi ad una insolita soluzione, sia che si tratti di elementi addossati alle pareti, il cui debito con la struttura del telaio pittorico appare forse più intuita che non dichiarata, sia che si osservino le sculture a terra, che sembrano invitare ad una percorribilità senza tuttavia spingere a farlo. In ogni caso la soluzione proposta è lontana da ogni tentativo di interpretare la scultura secondo modalità e canoni consolidati dalla storia, non c’è infatti un evidente intento figurale né in modo didascalico, né descrittivo o evocativo, ma allo stesso modo non ci sono elementi così prepotentemente espliciti che fanno pensare ad una linguaggio puramente astratto o emotivamente informale. Certo vi si colgono rimandi di queste tendenze, soprattutto della gestualità informale, con cui l’artista interviene deformando la linearità del metallo, ma senza un indugio eccessivo che faccia pensare ad una connotazione puramente esistenziale del gesto, quanto piuttosto affiora il tentativo da parte dell’autore di tracciare segmenti mentali che indagano lo spazio in modo disunito e frammentato in cui le linee e i semicerchi metallici si incastrano non più in una rigidità fissa delle linee, ma all’inverso emerge la necessità di Spagnulo di ricercare confini molli malleabili rendendo visibili le debolezze insite nella natura stessa dei metalli svelando fragilità e fluidità di un materiale che solo apparentemente si mostra nella sua solida e forte rigidità. Credo sia questa la componente caratteristica del suo lavoro, certo comune ad altri artisti della sua generazione come Eduard Habicher, Angelo Casciello o Tommaso Cascella anche se, in particolare gli ultimi due, confinati ancora in soluzioni con maggiori rigidità formali.
Si è accennato alle apparenze in riferimento al materiale e al modo in cui Spagnulo svela la natura stessa dei metalli, allo stesso modo, facendo ricorso in particolare nelle ultime opere a superfici specchianti o a trasparenze lucide e opache (queste già dai primi anni 2000), lo scultore cerca un innesto dialogante tra materie così diverse (la plastica del plexiglass e il metallo), ben evidente nell’installazione Contrappunto (2018) che si consuma nel rapporto giocoso tra specchiature riflessi e trasparenze luminose imprigionando dentro l’opera l’immagine dell’osservatore. In questo caso Spagnulo innesca un nuovo dispositivo visivo, che non prevede la percorribilità attiva del fruitore dentro l’opera, o meglio è solo accennata, forse un’illusione, ma ciò su cui si concentra forse non in modo consapevole è nell’inglobare al suo interno il riflesso stesso di chi quell’opera osserva, trattenendone di fatto l’immagine o più poeticamente l’anima. [lf]
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