2019

22 novembre 2021 / CENNI CRITICI /

ABITA_L'UOMO_P_BONARDI_V_SPAGNULO_2019

Abita L’uomo. Patrizia Bonardi Valdi Spagnulo

BACS – Leffe (BG)

 

Poeticamente, e su questa terra

Kevin McManus

«Pieno di merito, ma poeticamente, abita

l’uomo su questa terra».

Questi versi attribuiti al poeta romantico Hölderlin sono alla base di un saggio assai noto (1951) di Martin Heidegger, uno dei filosofi più impegnati sulla questione dell’abitare. Questo termine, tornato in auge in ambito filosofico e sociologico negli ultimi decenni, designa per Heidegger la modalità di esistenza più tipica, specifica dell’uomo in rapporto al mondo e alle altre creature. L’«esserci» dell’uomo, insomma, avviene sotto la forma e secondo le categorie dell’abitare. L’uomo non si limita a stare nel mondo, ma lo riempie di sé, con una scala di interventi che vanno dalla pura speculazione filosofica fino alla modificazione (talvolta, come è noto, anche distruttiva/peggiorativa) del mondo stesso, inteso sia dal punto di vista fisico, come ambiente, etc., sia come insieme complessivo di tutte le interazioni possibili, tra umano e umano, tra umano e altri esseri viventi, tra uomo e cose.

Aggiunge il filosofo, sulla scorta del testo di Hölderlin, che questo abitare non può caratterizzarsi se non per la sua «poeticità». L’abitare è poetico, dunque; per la precisione, il termine tedesco usato dall’autore è «dichterisch», più specifico («proprio del poeta») rispetto al generico «poetisch». L’esserci dell’uomo nel mondo non è concepibile se non nei termini del poetico. È proprio l’avverbio «poeticamente» a fare da collante tra l’uomo, il suo spazio, e l’abitare che regola il rapporto tra i due. Non solo, ma Heidegger tiene notoriamente a precisare come sia appunto questo «dichterisch» a far sì che questo spazio, la sede materiale dell’abitare dell’uomo, non sia in un mondo di fantasia o di puro intelletto – come un’accezione più ingenua di “poesia” potrebbe far pensare – ma «su questa terra». Esistenzialista ante-litteram, Hölderlin parte dal radicamento dell’uomo sul pianeta, rispetto al quale la poesia non è una fuga, ma al contrario una garanzia. In un passo celebre, Heidegger individua l’essenza di questo «poeticamente» nella facoltà umana, e solo umana, di «misurare»; una misura che non è banalmente quella degli spazi fisici della Terra, né quella fantasiosa dei cieli e degli spazi della divinità, bensì quella della distanza tra le due dimensioni, del «frammezzo» tra cielo e terra. L’uomo insomma è l’essere – l’unico ente – capace di concepire il proprio rapporto con l’infinito, e quindi a prendere coscienza della propria finitezza, della propria collocazione nel mondo. L’uomo-abitante-poeta si distingue quindi dalle altre creature per la sua capacità di riempire di senso gli spazi del suo esistere, di abitarli anziché occuparli, insomma di trasformare delle semplici porzioni di spazio fisico in luoghi. È il senso a caratterizzare, in ultima analisi, il rapporto dell’uomo con lo spazio che abita.

Mi sono dilungato più del solito in questa premessa teorica; non solo perché è scelta forte e orgogliosa, da parte del BACS, quella di far dialogare le opere d’arte con testi fondamentali di varie discipline (tra cui la filosofia) collegate alla sociologia e ai suoi temi. Ma anche perché questa dimensione dell’abitare (e dell’abitare poeticamente) è a mio avviso un evidente punto di contatto tra due modi operandi come quelli di Patrizia Bonardi e di Valdi Spagnulo, di per sé assai distanti per materiali, linguaggio e strategie di presenza visiva. L’opera d’arte, se è tale, è sempre una modalità poetica di attivazione di un spazio, che si tratti della superficie di una tela, dell’area tridimensionale circoscritta e chiusa di una scultura tradizionale, dell’ambiente di un’installazione o addirittura della piazza, del territorio, dell’intero edificio interessato da un intervento di arte pubblica. Tutte le forme d’arte lavorano sul senso, vanno a costituire un luogo, e pertanto rendono giustizia alla prerogativa umana dell’abitare. E tuttavia, proprio i versi di Hölderlin e le parole di Heidegger hanno cementato nella mia mente l’idea di un possibile dialogo tra i lavori di questi due artisti. Parlo specificamente di “dialogo”, perché i presupposti me lo suggeriscono: il dialogo avviene tra diversi (anche solo per la prospettiva occupata nel momento dell’interazione) che si interessano a un argomento comune. Il dialogo è lo sforzo fatto da due interlocutori affinché entrambi siano modificati dal pensiero dell’altro su un tema specifico. E il tema, qui, è proprio quello dell’abitare. Per dirla in termini netti, se tutta l’arte implica il discorso sull’abitare, quella di Patrizia Bonardi e Valdi Spagnulo lo rende esplicito, lo mette a tema con una sinteticità e un’apertura di senso tali da garantire, appunto, la dimensione del dialogo nello spazio comune di una mostra. Se Hölderlin era per Heidegger il «poeta del poeta» (ossia il poeta che illuminava l’atto stesso del poetare), possiamo dire che Bonardi e Spagnulo siano due «artisti dell’artista».

La differenza, sostanziale ma fertile, tra i due approcci sta nel punto specifico su cui rispettivamente insistono nel rendere esplicito l’elemento dell’abitare. Potremmo dire, con un’utile approssimazione, che cambia la quantità di elaborazione simbolica, o addirittura che cambia la figura retorica prediletta da ciascun artista: la metafora per Patrizia Bonardi, la sineddoche per Valdi Spagnulo. L’una significa l’abitare attraverso una rappresentazione simbolica di temi connessi esplicitamente all’abitare contemporaneo; l’altro lo significa proponendo esempi reali, praticabili, effettivamente (e poeticamente) abitabili di spazio. E seguendo la linea di sviluppo delle figure retoriche (scelta fuori moda, forse, ma a mio avviso efficace), la metafora comporta che l’apertura di senso, la polisemia dell’opera avvenga per associazione, per contrasto, per aggiunte successive, mentre la sineddoche è aperta per la sua pura potenzialità, per la sua dimensione al tempo stesso astratta ed estremamente concreta.

Prendiamo due opere che nell’allestimento della mostra occupano uno spazio di dialogo privilegiato: Abnormal Waves (2019) di Patrizia Bonardi e La Domus di Persefone (2015) di Valdi Spagnulo. La prima, pensata appositamente per la mostra, affronta la questione dell’abitare dal punto di vista specifico dell’habitat, delle conseguenze ambientali e sociali dell’antropizzazione del pianeta. Le onde sono «anomale» per la loro matericità disturbante, per l’ostacolo cromatico che impedisce loro di corrispondere tanto all’iconografia consolatoria della “marina” quanto a quella romantica, sublime, del mare in tempesta. Effetto, quest’ultimo, creato anche dalla suddivisione in pannelli di lunghezza e larghezza regolari, disposti quasi a mo’ di griglia astratta: è proprio questa scelta, questo distacco critico creato a  dispetto di superfici che, di per sé, sarebbero “immersive”, chiamerebbero al tatto e al coinvolgimento totale dello sguardo, a garantire all’opera quell’apertura di senso che le permette di entrare in dialogo sul tema dell’abitare, di tornare insomma alla sua accezione complessiva. Rispetto alla possibilità della chiusura simbolica data dalla metafora “risolta”, l’allestimento crea un’apertura entro la quale il discorso ecologico-ambientale diventa uno dei possibili stimoli sulla questione dell’abitare umano. La Domus di Persefone, viceversa, analogamente ma in modo più serrato rispetto all’Angolo bianco (2014), parte da un’accezione più letterale di “spazio” e di “abitare”, fornendo un archetipo di spazio abitativo, un esempio, una sineddoche appunto. L’opera è percorribile, abitabile, si offre alla presenza del corpo dell’osservatore, oltre che al suo sguardo. Anziché rappresentare l’abitare, ce lo presenta, in una modalità che è al tempo stesso specifica, locale, caratterizzata, ma anche aperta, eternamente potenziale. È un abitare che nella sua incompletezza finisce per significare tutti gli abitare possibili. I versi di Hölderlin echeggiano parimenti in entrambe le opere, ma mentre Bonardi sembra porre l’accento sul «su questa terra», Spagnulo si concentra in maniera specifica sul «poeticamente»: il suo spazio è uno spazio circoscritto, misurabile, e al contempo illimitato, possibile; è un qui e un altrove insieme. La stessa collocazione dell’opera, che parte dalla parete e si diffonde, quasi come se compisse un movimento continuo, sul pavimento, corrobora questa dimensione poetica: una poesia che – proprio come la poesia scritta dal poeta – si caratterizza in quanto tale per il suo essere progetto (il “disegno” a parete) e spazio reale (la dimensione orizzontale) al tempo stesso.

Chiudo con un ulteriore elemento di confronto tra i due artisti, a mio parere profondamente connaturato al primo. Il poetico, nella sua etimologia greca, è connesso all’idea del fare. È poetico ciò che è fatto, prodotto, costruito in modo tale da comportare una riflessione sull’atto stesso del fare, produrre e costruire, sulla sua posizione nella mappa delle cose umane. Ecco, tanto Patrizia Bonardi quanto Valdi Spagnulo amano mostrare il fare nei loro lavori: le forme leggere, inizi di linee possibili, di Valdi rivelano in realtà la potenza di un gesto scultoreo che è fatica, tempo, volontà di informare (abitare) la materia. Le superfici di Patrizia, dal canto loro, recano le tracce della loro fattura, talvolta in senso quasi rituale (si pensi alla tecnica, assai usata dall’artista, dell’avvolgimento in bende), talvolta nel senso di un’impronta che si fa indice della presenza umana (dell’abitare) nell’opera, come nei Fiery Trees (2019) con i loro “occhi” tagliati nella superficie. Segni diversi, che si ritrovano nella ricerca sul senso, sull’esserci, sul privilegio di esserci poeticamente (artisticamente).

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